|
Un
esercito potente ed armato in modo sofisticato fino ai
denti sotto la bandiera degli Stati Uniti, fronteggia un
milite solitario, dal volto ignoto, armato solo di un
bazooka. E’ la vignetta pubblicata su un quotidiano
indiano e che ben rappresenta gli interrogativi che
l’intervento armato degli Stati Uniti in Afganistan sta
ponendo a studiosi di guerra, esperti di relazioni e di
diritto internazionale. E’ giusto parlare di guerra?
L’intervento militare degli Stati Uniti è un legittimo
atto di autodifesa, oppure nasconde altri
obiettivi? Quello architettato da Osama bin Laden è
stato un “atto di guerra”, recita il ritornello di Bush
e dei suoi uomini. E’ così? La guerra – vecchia o nuova
che sia – per definizione è condotta tra due o più
stati. La guerra – come spiega Carl von Clausewitz nel
suo classico Della Guerra –
è “l’impiego della forza per costringere il nostro
nemico a fare la nostra volontà”. Per definizione, è la
“continuazione della politica con altri mezzi”. Per
definizione, essa è annunciata da dichiarazioni di
guerra e terminata con la firma di un trattato di pace.
Il Congresso degli Stati Uniti, infatti, non ha votato
una Dichiarazione di Guerra contro l’Afganistan, ma una
Risoluzione con la quale autorizza l’uso della forza
militare contro nazioni, organizzazioni e persone
coinvolte nell’attacco e contro quelli stati che
proteggono e sponsorizzano organizzazioni
terroristiche. Una prima anomalia,
dunque, nell’uso del termine “guerra”, sta nel fatto che
i soggetti del conflitto in atto non sono due stati.
Osama bin Laden non ha ambasciate. Non è neppure il
rappresentante di un popolo in ribellione che invoca il
diritto all’autodeterminazione. E’ solo il leader di una
potente organizzazione terroristica in latitanza,
presubibilmente in Afganistan, grazie alla complicità
dei Talibani che sono un governo non riconosciuto dalla
comunità internazionale. Ma se non si
tratta di una “nuova guerra”, in quale cornice va posto
l’attentato dell’11 settembre? E, soprattutto, gli Stati
Uniti agiscono secondo il diritto internazionale
rispondendo con la forza al crimine subito?
Gli esperti di diritto internazionale parlano
dell’attacco alle Torri Gemelle di Manhattan ed al
Pentagono come di un “crimine contro l’umanità”. Il 12
settembre scorso il Consiglio di Sicurezza ha approvato
all’unanimità una risoluzione dove afferma che ogni atto
di terrorismo internazionale è una minaccia alla pace ed
alla sicurezza internazionale. L’affermazione è di una
importanza straordinaria. La Risoluzione, inoltre,
ricorda, inoltre, il diritto dell’individuo e della
collettività all’autodifesa così come stabilito dalla
Carta delle Nazioni Unite. “Questa misura – spiega
Robert Kogod Goldman, del Washington College of
Law della
American University –
pur non autorizzando espressamente l’uso della violenza,
è sufficiente perchè gli Stati Uniti vi possano far
riferimento per l’impiego legittimo della forza”.
Prima di procedere al bombardamento
dell’Afganistan, lo staff diplomatico di Bush ha
lavorato per giorni nel costruire una alleanza
internazionale attorno alla reazione degli Stati Uniti.
Il consenso raccolto è stato largo e comprende – pur con
sfumature diverse - anche stati arabi. La ragione di ciò
sta probabilmente nella speranza da parte degli alleati
di condizionare i successivi passi degli Stati Uniti
considerato che – come ammesso dallo stesso Bush – la
“guerra” sarà molto lunga. Gli Stati
Uniti, dunque, hanno inziato il bombardamento
dell’Afganistan in nome del diritto all’auto-difesa, con
la benedizione delle Nazioni Unite e della comunità
internazionale. Col passare dei giorni, però, qualche
dubbio che di sola auto-difesa si tratti diventa
legittimo. Dopo le prime quarantotto ore
di bombardamento, bin Laden è diventato per gli uomini
del Pentagono un obiettivo secondario. Una strategia più
ampia e complessa sembra prendere piede. Il sospetto è
che la risposta all’attacco terroristico coincida con
un’azione militare volta anche a garantire, ed
ulteriormente proteggere, gli interessi nazionali degli
Stati Uniti in quell’area altamente infiammabile del
mondo. Una lente attraverso la quale
osservare gli avvenimenti di queste settimane è tener
conto degli interessi geopolitici degli Stati Uniti in
quella regione. Il conflitto armato in atto tra USA e
Osama bin Laden non è una guerra tra ricchi e poveri.
Gli USA non sono l’Anticristo e Osam Bin Laden non è
l’ambasciatore dei poveri. Si tratta piuttosto di una
guerra tra ricchi che vogliono garantirsi, tra l’altro,
il controllo delle risorse petrolifere. “Ad un dato
momento bin Laden ha affermato che vuole portare il
prezzo del petrolio per barile a 144 dollari: sei volte
il valore al quale è venduto oggi”, afferma Roger Diwan,
manager della Petroleum Finance Company con sede a
Washington. Negli Stati Uniti è del 60 per centro
l’importazione di petrolio per il consumo giornarliero.
Di questo il 13 per cento viene importanto dalla regione
del Golfo Persico che su scala mondiale eroga circa il
20 per cento del petrolio consumato.
Dell’importanza strategica dell’Asia
Centrale per il petrolio si fa esplicito riferimento nel
Quadriennale Rapporto di Revisione della Difesa che il
Pentagono ha pubblicato lo scorso 30 settembre, quindi a
poche settimane dall’attacco a New York e Washington.
“Gli Stati Uniti ed i suoi alleati - vi si legge -
continueranno a dipendere dalle risorse energetiche del
Medio Oriente, una regione dove diversi stati pongono
delle sfide con armi convenzionali o cercano di
acquisire – oppure hanno già acquisito – armi chimiche,
biologiche, radiologiche, nucleari”.
Durante la Guerra Fredda, si parlava di
“guerra preventiva”. La teoria era che, in un periodo di
proliferazione di armi atomiche, fosse consigliato
colpire gli stati durante la loro fase di transizione da
“convenzionali” a “nucleari”, prima che fosse troppo
tardi. Secondo il politologo Scott Sagan “una guerra
preventiva può essere decisa più facilmente se i leader
militari hanno una maggior influenza, diretta o
indiretta, sulla decisione finale”. Nel
gabinetto di Bush una potente voce in capitolo ce
l’hanno personaggi come il segretario alla difesa Donald
Rumsfeld o il suo vice Wolfowitz che non nasconde il
desiderio di estendere all’Iraq l’operazione militare in
atto.”Vi è potenzialmente – si legge nel rapporto - la
possibilità da parte di poteri regionali di sviluppare
sufficienti capacità in grado di minacciare la stabilità
di regioni che sono di cruciale importanza per gli
interessi degli Stati Uniti”. E aggiunge: ”Mantenere un
equilibrio stabile in Asia sarà un compito complesso.
(...) Lo scenario asiatico è caratterizzato da grandi
distanze. La presenza di basi statunitensi (...) è
minore che in altre regioni di importanza cruciale. Gli
Stati Uniti hanno anche minor garanzia di accesso
rispetto ad altre regioni”. L’azione
suicida dei seguaci di Osama bin Laden potrebbe aver
dato la luce verde ad una “guerra” che, partita come
azione di auto-difesa e di giustizia, col tempo potrebbe
trasformarsi in “guerra preventiva”. E’ convinzione
di molti politologi – i cosidetti “realisti” – che gli
stati si ritrovino in un ambiente internazionale
anarchico, da nessuno governato e controllato. Per
questo ciascuno è chiamato a provvedere da sè alla
propria difesa, costruita sui principi dell’interesse
nazionale e dell’equilibrio dei poteri. La regola del
gioco di ogni conflitto è che ci debba sempre essere un
vincitore ed un vinto. La Guerra Fredda ci ha formato ad
intendere i termini del conflitto in senso di esasperata
competizione. Oggi, però, viviamo in un mondo
completamente differente. Gli stati non sono più i soli
protagonisti del mercato delle relazioni internazionali.
E la tragedia dello scorso 11 settembre, in negativo, lo
dimostra. La sicurezza oggi non è più
solo il problema di un singolo stato preoccupato di
migliorare a suo favore l’assimmetria in termini di
difesa. Il problema sicurezza è oggi un problema da
affrontare in termini di “sicurezza comune”. Solo
garantendo sicurezza agli altri, uno stato garantisce
anche sicurezza a sè stesso. Non più vincitore e vinti,
ma tutti vincitori. Questo richiede una nuova
intelligenza ed una nuova creatività. Vanno poste
domande nuove, per trovare inedite risposte. Vanno
concepiti nuovi costi di opportunità. I bombardamenti in
atto – sul lungo periodo – non aiutano questo scopo.
Neanche quello di garantire “pace, libertà e benessere
globali” come si propone nel suo rapporto il
Pentagono.
*L’autore è
ricercatore presso il Conflict Resolution Program della
School of International and Public Affairs della
Columbia University di New York. Coordina progetti di
risoluzione dei conflitti in Colombia e nel Sud-Est
Europeo ed è autore di articoli sul
tema.
|